Anna Maria Monteverdi: ci vuole una “regia” adeguata per le esperienze immersive ad alta tecnologia

 In mostre immersive, personaggi

Esperta di digital performance e video teatro, Anna Maria Monteverdi è ricercatore di Storia del teatro all’Università Statale di Milano e docente aggregato di Storia della scenografia. Ha insegnato Drammaturgia dei media, Digital video, Teatro multimediale in Accademie di Belle Arti e Dams. Direttrice della rivista accademica Connesioni remote (UniMi), è cofondatrice del webmagazine ateatro.it

Tra i suoi libri, Memoria, maschera e macchina nel teatro di Robert Lepage (Meltemi Editore 2018), Nuovi media, nuovo teatro (FrancoAngeli 2011), Rimediando il teatro con le ombre, le macchine, i new media (Edizioni Giacché 2014) e, con Andrea Balzola, Le arti multimediali digitali (Garzanti 2004).

Nel tuo libro “Leggere uno spettacolo multimediale” mi pare che uno dei motivi dominanti sia la caduta delle barriere tra diverse forme espressive, unite anche da collante della tecnologia. Come si evince dal saggio, questo vale per esempio per il cinema e il teatro, sempre più contaminati tra loro. Ma è un concetto che si ritrova anche nelle mostre d’arte, sempre più immersive?

L’abitudine alle tecnologie (amplificata in questo periodo di Covid) ci porta a essere sempre più esigenti: ora che sappiamo usare i QR code, gli assistenti vocali, ora che abbiamo la Smart Tv, che guardiamo un film in condivisione con un amico in Australia con cui commentiamo in diretta, ora che sappiamo la differenza tra live streaming e webcasting e che anche nostro anziano zio usa l’home banking con una App dal cellulare, ci fa “strano” entrare in un museo e dover solo “guardare” un oggetto in una teca! Sto scherzando ovviamente. Diciamo che oggi i musei con le tecnologie hanno la possibilità di mostrare le loro ricchezze di storia e memoria in modi diversi; gli utenti possono giocare con video interattivi, interagire con la Realtà Virtuale e molto altro…tutte occasioni per una “user experience” immersiva“, che fa appello alla percezione sinestetica, all’esperienza emotiva dell’utente (i famosi “musei emozionali” come vengono chiamati). Anche per i curatori è più divertente creare intorno alle collezioni, originali “storytelling” o modalità di visita interattiva, anche a distanza come si fa oggi. Insomma un approccio ai beni culturali come tu sottolinei, fortemente ibridato con le proiezioni, persino con il videogame. Le tecnologie appartengono al nostro mondo e al nostro modo di osservare il mondo, e l’arte esplora questi territori inesplorati delle tecnologie creando nuovi formati di narrazione. Il teatro è uno di questi linguaggi artistici che, non da ora, è aperto a scambi fruttuosi che possono portare a soluzioni narrative davvero interessanti.

In generale, oggi si cerca sempre di più l’effetto wow, nei vari settori. E’ in corso una spettacolarizzazione diffusa che coinvolge profondamente anche gli ambiti culturali più legati alla tradizione, per esempio i musei? E non intendo la singola mostra estemporanea.

La tecnologia di per sé, specie quella legata alla Realtà virtuale, alla Realtà Mista e Aumentata crea effetti piuttosto stupefacenti ma che annoiano a lungo andare… io dico sempre che bisogna distinguere tra quella che è l’efficacia computazionale e l’efficacia sul pubblico. Quando la tecnologia “guida” troppo, quando il dispositivo è diciamo, “esuberante”, strabordante al punto che ci fa soffermare troppo sul mezzo e non sul contenuto, senza lasciar spazio all’immaginazione, ebbene non funziona.. Invece quando la tecnica viene “reinventata” diventando “altro” da quello per cui è stata inventata, proposta per il mercato, mettendo il visitatore al centro della storia, produce quell’effetto stupore che è ben altra cosa dall’effetto wow, perché la tecnologia effettivamente, in questo caso accompagna la narrazione e non la sovrasta e amplifica saperi. Nei musei come nei teatri, il problema non è la tecnologia in sé ma come questa venga trasformata in linguaggio.

Recentemente ho letto un articolo in cui si diceva che i musei in futuro potrebbero rifarsi al modello dei parchi dei divertimenti. E’ possibile che succeda?

Spero di no; tutti abbiamo visitato parchi tematici (archeologici o scientifici) indossando visori, aumentando la nostra percezione, facendo viaggi intergalattici nel Medioevo o su Marte ma non c’è mai venuto in mente di definirli “luoghi d’arte” perché al di là della spettacolarità della tecnica, sono parchi di divertimento appunto e non comunicano niente; tuttavia dato lo scarso appeal che purtroppo ha la cultura in questo particolare momento storico non solo per la pandemia, riuscire a trovare delle soluzioni tecnologiche che veicolino in modo equilibrato e intelligente contenuti museali, storici e d’arte può essere una strada fruttuosa da percorrere, anche per trovare nuovo pubblico, ma occorre una “regia” adeguata Tuttavia vorrei ricordare che se si fa riferimento a questa modalità multimediale, poi bisogna ricordarci che tutta la tecnologia che mettiamo in campo ha bisogno di “manutenzione”. Ho visto di recente un museo a Sarzana in una Fortezza storica, nato per essere solo multimediale (in assenza di arredi e oggetti d’epoca), davvero maltenuto: non c’era una sola proiezione che funzionasse come doveva, una stanza era addirittura chiusa perché la proiezione a 360° non partiva: i custodi non erano in grado di ricalibrare i proiettori. Chi si occupa di multimedialità e New Media Art sa quanto possano essere “fragili” e di difficile manutenzione opere videoartistiche e interattive, specie se inserite in contesti museali o in spazi storici.

La presenza diffusa della tecnologia tende a uniformare il linguaggio di varie forme di cultura e spettacolo. In tal modo, in virtù di questo comun denominatore, bisognerà rivedere anche le categorie e i criteri di giudizio? In poche parole, una sfilata di moda per lo storico potrà avere lo stesso valore di una pièce di Wedekind?

Ancora una volta dipende dall’uso che se ne fa: nel 1999 Alexander McQueen fece una sfilata di moda geniale in cui le modelle interagivano sulla passerella con i robot Kuka, quelli dell’industria ad alta automazione. Io in classe faccio vedere questo video insieme alle installazioni di Bill Viola. L’arte anche quella tecnologica, può invadere ogni contesto e unire pubblici assai diversi: questo ormai è qualcosa di normalizzato ed è esattamente quello che il teorico Jenkins definisce “convergenza culturale”. Quando si parla di “convergenza” dei media intendiamo qualcosa di più dell’innovazione tecnologica legata al digitale: si tratta di un processo sotterraneo più invasivo che investe i rapporti tra pubblici, generi, mercati creando un social mixing culturale legato a consumer sempre più attivi e socialmente connessi e multitasking. Poi certamente, per usare le tecnologie servono economie e budget che difficilmente il mondo teatrale e dell’arte in genere possiede, ma che grosse società di produzione e network televisivi invece, hanno. Ma a quel punto per far tornare i conti serve produrre qualcosa di molto popolare, spettacolare, che attiri più persone possibili. E così molte risorse vengono “sprecate”: tutto è votato alla spettacolarità, nessuna creatività e solo effetti di superficie. Ma se queste stesse tecnologie tu le mettessi in mano ad artisti di spessore, in grado di veicolare contenuti importanti in formati originali, beh, diventerebbe un’esperienza fantastica e totalizzante, persino un’esperienza estetica giocare a un videogame. Il problema non è il medium tecnologico.

A un certo punto del tuo libro, parlando di videomapping, si dice che le facciate delle case diventano i nuovi palcoscenici. Vuol dire che progressivamente i luoghi dello spettacolo si stanno spostando tra la gente, fuori dai teatri e dai cinema?

Dunque il videomapping nasce come tecnologia per lo spazio pubblico: si mappano palazzi, facciate e finestre, scalinate… le proiezioni gigantesche ormai fanno parte del paesaggio urbano. E nasce per motivi commerciali e pubblicitari, per il lancio di nuovi marchi. Dopo aver esplorato la casistica di giochetti di animazione gli artisti prendono in prestito dal teatro una specifica modalità di rappresentazione. Questo per me è il passaggio dal primo videomapping fatto di “effettistica” piuttosto scontata, a una vera “drammaturgia verticale”. Da qui poi, il videomapping entra anche nel teatro e viene usato, nelle soluzioni più riuscite, insieme con sistemi di tracciamento visivo che permettono di far interagire le immagini con il performer. Anche in questo caso la “reinvenzione” del mezzo tecnologico fa la differenza.

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